Gilberto Botti
Gae Aulenti: architettura e museografia
Dal Musée national d'art moderne del Centre Georges Pompidou al Musée d'Orsay
In: Lotus international 53, Ordinamenti espositivi, 1987
Gilberto Botti
Gae Aulenti: architettura e museografia
Dal Musée national d'art moderne del Centre Georges Pompidou al Musée d'Orsay
In: Lotus international 53, Ordinamenti espositivi, 1987
La recente inaugurazione del Museo d'Orsay a Parigi riapre ad un livello di grande impegno la riflessione sul tema del rapporto architettura-museografia. E invita in pari tempo a ricomprendere sotto questo profilo in una prospettiva di assieme e in divenire l'intera esperienza maturata da Gae Aulenti a datare dal concorso per l'''aménagement intérieur" del Musée d'Orsay. Dunque insieme al d'Orsay, il Museo Nazionale d'arte moderna al Centre Georges Pompidou nella stessa capitale e Palazzo Grassi a Venezia.
Specificità tematica, impianto concettuale, modalità risolutive del rapporto architettura-museografia nell'opera di Gae Aulenti sono letti nelle considerazioni che seguono da un punto di osservazione interno alla disciplina dell'architettura (1).
Musée d'Orsay, view of the entrance.
Circostanze esterne e criteri generali di approccio
Nella attuale fase di "alta congiuntura" della istituzione museale l'intensa e continuativa attività progettuale di Gae Aulenti si distingue in primo luogo, oltre che per la evidente rilevanza dell'impegno, per peculiarità di caratteri conseguenti ad un singolare concorso di circostanze esterne, che ne definiscono unità di "ambito tematico" e varietà di specifico "svolgimento" in relazione al "genere museografico" e al "luogo di fondazione" della sua architettura.
In stretta connessione con qualificati programmi, il tema ricorrente del museo d'arte ha infatti modo di soffermarsi, di volta in volta, sulla precisazione di differenti "specie": al vasto e complesso impianto del Musée d'Orsay, dimora di opere testimonianti l'ampiezza e la varietà della produzione artistica che dalla metà dell'Ottocento giunge alle soglie del Novecento - da Un enterrement à Ornans di Gustave Courbet, 1849-50, a Luxe, calme et volupté di Henri Matisse, 1904 - si affianca il misurato e unitario insieme del Musée national d'art moderne, che espone opere di pittura e scultura dei primi sessant'anni del Novecento, ripartendo da Matisse e arrivando all'astrazione e all'arte oggettuale degli anni cinquanta-sessanta. Accanto a queste sedi di collezioni permanenti trova poi svolgimento il capitolo di una dinamica istituzione quale palazzo Grassi, luogo museale per esposizioni e collaterali iniziative culturali a carattere temporaneo.
Sintomatico di una condizione sempre più diffusa dell'agire (e dei suoi riflessi sullo spirito) contemporaneo, il collocarsi di ognuna di queste opere all'interno di edifici preesistenti attraversa tuttavia un'insolita campionatura tipologica ed espressiva: per rapporto e alla dinamica dei luoghi passati alla condizione cosiddetta del "riuso" e al "posizionamento" di questi stessi luoghi rispetto alla funzione museale. Se per edifici come palazzo Grassi si sono da tempo poste le condizioni storico-sociali di un "trapassare funzionale" e quelle culturali di un "permanere fisico" in quanto frammenti testimoniali, di più recente acquisizione e di più incerta collocazione è il tema del riutilizzo di edifici obsoleti della "civiltà industriale", nel nostro caso esemplificati dalla grande stazione ferroviaria d'Orsay datata 1900.
Ma di fronte all'intervento "rifondativo" attuato al quarto piano del Centre Georges Pompidou l'incertezza della definizione aumenta, poiché l'edificio in questione, di recente costruzione e niente affatto obsoleta non richiede d'essere "recuperato" ne "convertito" a ad altra funzione. Eppure una "conversione" in esso viene praticata: se ad esprimerne la portata il termine "allestimento" appare insufficiente e se la formula "restauro trasformativo" non ne chiarisce pertinentemente il senso (2), tuttavia è indubbio che l'organismo museale progettato da Gae Aulenti operi dall'interno un ribaltamento significativo delle concezioni che animavano i precedenti allestimenti ed anche un muta-mento sensibile di percezione della stessa architettura entro cui si definisce.
Non meno varia, significativa e paradossale la sequenza di situazioni - di opposizione, affinità, giustapposizione, sovrapposizione - risultanti dal rapporto fra destinazione d'uso originaria e utilizzazione museale: di opposizione nel caso della stazione ferroviaria, per concezione spaziale-funzionale (nonostante le virtuali parentele o congiunzioni analogiche instaurabili sul piano del gioco letterario) (3); di affinità nel caso del palazzo nobiliare, non solo per la vocazione alla rappresentazione rintracciabile nell'impianto tipologico, ma anche perché è nel palazzo che si formano ed esplicano l'idea e la funzione del collezionismo d'arte, antecedente diretto del museo d'arte pubblico; di sovrappo-sizione, infine, nel caso del Centre Georges Pompidou, "contenitore" moderno per attività museali sia temporanee che di stabile dimora.
Ma ancora intorno al rapporto tra destinazione originaria e conversione all'uso museale si propone un'ulteriore riflessione: quella che, nell'inevitabile considerazione delle proprietà evocative di un edificio ridotto a frammento testimoniale, ne associa il destino e la percezione a quelli stessi dell'opera giunta alla fase della conservazione ed esposizione in un museo. Come l'opera, così l'edificio - esaurita la fase della sua integra e diretta partecipazione alla configurazione dei tratti di un'epoca - consegna ciò che di sé rimane alla tutela, allo studio, alla contemplazione. Costituendo forma particolare di una "eterotopia del tempo che si accumula" (4), questo tipo di museo annovera fra le opereche raccoglie lo stesso edificio che lo "ospita".
Ciononostante, a fianco di tale disposizione evocativa, che richiama il motivo della transitorietà, ne emerge un'altra di segno opposto: quella riferibile alle proprietà attuali dell'opera come dell'edificio, che ne assicurano durata ed efficacia oltre il variare dei cicli storico-sociali, oltre le destinazioni e le motivazioni iniziali legate alle circostanze del tempo e del luogo. Una disposizione che richiama il motivo della permanenza e che invita pertanto a non perdere di vista il tema degli "statuti interni" ed autonomi delle diverse "formazioni discorsive" conviventi, nei musei considerati, in forme del tutto particolari.
All'insieme di condizioni esterne qui richiamate - e alla serie di nodi problematici derivanti dalla loro considerazione relazionata - se ne aggiunge una interna, concernente l'atteggiamento progettuale di Gae Aulenti. Un atteggiamento aperto e insieme determinato: sensibile alla molteplicità delle valenze insite in ogni situazione progettuale e deciso a ricondurle tutte, rigorosamente, nell'alveo stabilito dal compito, che costituisce il termine ultimo di riferimento e di verifica di ogni collaterale o sovrapposta finalità operativa e comunicativa. A questa apertura e determinatezza fa riscontro inoltre la chiarezza nella scelta degli "strumenti": di fronte allo spazio di preesistenti strutturazioni e configurazioni edilizie, il tema della "conversione" alla funzione museale viene sviluppato con modalità proprie all'architettura, nel rifiuto tanto dei connotati di precarietà e indefinitezza rispondenti a una certa idea dell'interiore museale moderno, quanto dell'agire limitato al piano rappresentativo e metaforico proprio delle ideologie correnti del "riuso".
Ma si tratta di un approccio che ne connota la ricerca progettuale già prima dell'esperienza museografica avviata col concorso per la creazione del Musée d'Orsay: nella frequentazione ricorrente di ambiti che in quegli stessi anni intrattengono sempre più incerti e oscillanti rapporti con la disciplina, la definizione di situazioni differenti dello spazio interno - del privato, dello scambio, dello spettacolo - intreccia un racconto che impiega, verifica, indaga costantemente i mezzi specifici del linguaggio dell'architettura (5).
Poste queste premesse, l'intera esperienza che Gae Aulenti da otto anni va svolgendo sul tema del museo si presta ad essere proficuamente indagata sotto il profilo di un rapporto del tutto particolare: architettura-museografia. Un rapporto che, letto nei suoi tratti di universalità e di singolarità, non si configura mai linearmente, o, come Aulenti stessa precisa, "biunivocamente". E ciò per due ragioni fondamentali: in primo luogo perché architettura e museografia rappresentano sistemi complessi, ognuno dotato di una sfera di autonomia costitutiva, "riducibili" l'una all'altra soltanto procedendo per "approssimazioni successive"; in secondo luogo perché questi due sistemi sono attraversati di continuo da altre formazioni discorsive, dotate a loro volta di una sfera di irriducibilità e posizionate in modo tale da interferire e interagire col termini di composizione del rapporto principale.
La conseguente frantumazione del problema nelle innumerevoli determinazioni funzionali, culturali, contestuali generate dall'incontro e dall'ascolto delle diverse parti in causa è propria della fase iniziale di ogni progetto e rimanda a una questione di metodo, o di "modalità di lavoro", come Aulenti tiene a precisare, che consiste nella "ricerca dei vincoli", la quale "più è profonda e più si rivela utile". La costruzione successiva del progetto è il momento di una selezione e di una scelta. Il risultato, l'architettura del museo, si dà come "intero" in cui traspaiono, leggibili nella loro specificità discorsiva e nel legame che necessariamente le connette, le tre parti costitutive fondamentali: l'architettura, il luogo di fondazione, il programma museografico. I modi e i momenti del loro porsi autonomo e reciprocamente relazionato richiedono una trattazione particolareggiata.
Architettura museale: gli elementi e la composizione
Musée d'Orsay, view of the central nave of the balcony the two towers.
Musée d'Orsay, view of the central course with rooms for the scultures and the two tower in the background.
Presupposto che Gae Aulenti esclude l'esistenza, storicamente, di una "tipologia del museo", mentre invece afferma che si possa parlare di "architettura museale", uno dei momenti di maggiore approfondimento della sua ricerca è dato conseguentemente dal lavoro sulle tipologie spaziali e la loro connotazione funzionale. L'idea che l'interiore museale debba essere costituito da un insieme stabile, più o meno complesso e articolato di unità spaziali architettonicamente definite, ma non autosufficienti (in cui struttura e forma si compiono con le opere stesse e l'atto della visita per i quali sono state pensate), contraddice da un lato alcune modalità di approccio distintive di correnti significative dell'esperienza moderna e riapre dall'altro lato una spinosa questione che accompagnò già il sorgere dei primi maturi esempi di architettura museale di inizio Ottocento.
Innanzitutto questa pervicace aderenza al compito nelle sue variabili determinazioni di luogo, contesto, contenuto, finalità - che esclude "per definizione, per posizione intellettuale un linguaggio da proporre a priori" - stabilisce una distinzione rispetto ai modi con cui alcuni maestri del movimento moderno (in particolare Le Corbusier e Wright) si sono accostati al tema del museo, interpretandone e traducendone architettonicamente sì la funzione e il significato, ma più in un'essenza idealizzata che nella fenomenicità complessa delle sue reali determinazioni (6). In secondo luogo si oppone radicalmente agli equivoci che stanno alla base del progressivo smantellamento dell'interiore museale attuato in nome di una trasformazione complessiva dell'istituzione civica in senso "antimonumentale" e "democratico". I musei a "pianta libera" preconizzati dalle avanguardie e in seguito realizzati nel dopoguerra con fedele aderenza al trinomio flessibilità-trasparenza-neutralità non danno infatti risposte convincenti nemmeno sul terreno della stretta rispondenza allo scopo: come la eccessiva rigidità, l'annullamento di ogni vincolo spaziale comporta, in apparenza paradossalmente, l'annullamento di ogni libertà espositiva e fruitiva (7).
A questo proposito non è poco significativo notare come, in fondo, le stesse "astratte" esercitazioni progettuali sul tema del museo promosse dai "Prix de Rome" sul finire del Settecento, e la loro codificazione successiva nel modello del Précis di Durand (8), nonostante l'assenza di qualsiasi riferimento a un programma, a un ordinamento museale determinato fossero già più concrete e praticabili ed effettivamente "universali". Esse infatti poggiavano sulla solida base delle qualità sperimentate dell'architettura, di situazioni spaziali del museo già restituite dall'esperienza precedente a contatto e in commistione con altri "tipi"'. Un'esperienza che includeva non secondariamente la dimensione percettiva (fisiologica e culturale) del visitatore.
Tuttavia, se la rigidità di questi organismi, prototipi del museo d'arte ottocentesco, poco corrisponde alle esigenze dei maturati sviluppi delle discipline storico-critiche preposte alla raccolta, all'ordinamento, alla lettura delle opere, sul versante opposto la eccessiva indeterminatezza dei "neutrali contenitori" tardofunzionalisti appare inadeguata a soddisfare le esigenze fruitive cui deve corrispondere l'istituzione museale pubblica: catapultato nel paesaggio indistinto di fluttuanti situazioni spaziali, il visitatore non può che esperire in essi la perdita del proprio orientamento visivo e culturale.
Indicare queste distanze e distinzioni serve a collocare storicamente e criticamente la consapevolezza con la quale Gae Aulenti riafferma con decisione la necessità di una definita e stabile strutturazione e configurazione spaziale dell'interiore museale. Con tutte le conseguenze che ciò comporta sia sul piano della tecnica che su quello del linguaggio, che non si vogliono mai costitutivamente separati. In questo senso, il richiamo ai "luoghi tipici del museo", come le sale e le gallerie, non rappresenta affatto un mero recupero della tradizione, tantomeno un riferimento a statici modelli o la loro riduzione a frammenti tipologici da combinare in aggregati più o meno complessi come citazione di "memorie museali". È piuttosto il riconoscimento della insuperata validità di determinate situazioni spaziali e il conseguente, necessario impegno a risolvere con ed entro esse le esigenze di una sufficiente mobilità espositiva, di una elevata qualità percettiva, di un rigoroso controllo delle condizioni ambientali (dove il ricorso a mezzi e tecniche altamente sofisticati esula da qualunque retorica tecnicistica). Fondamentale e dichiarato riferimento al proposito risulta la lezione di metodo kahniana del museo di Fort Worth e delle gallerie di New Haven, dove l'architettura si misura con le esigenze della museologia enunciando pacatamente la sfera della propria autonomia costitutiva, senza rinunciare ideologicamente a mettere in gioco le proprie risorse né autoaffermandosi più o meno retoricamente come puro gesto creativo.
Ognuno dei musei sinora realizzati è esemplificativo della efficacia e coerenza dell'impegno assunto e dei riferimenti di metodo a cui si è fatta menzione.
Palazzo Grassi, Venezia. Veduta esterna (Foto G. Basilico) e piante del piano terreno e di un piano superiore
A Palazzo Grassi assistiamo ad una riperimetrazione apparentemente scontata degli spazi già restituiti dall'impianto esistente, dati i vincoli posti dalla tutela. Ma la rigidità delle condizioni non impedisce di ottenere la massima flessibilità espositiva e ottimali condizioni percettive. Qui come negli altri casi la collaborazione con Piero Castiglioni è determinante: ripetutamente Aulenti ha affermato che componente fondamentale nella definizione dell'architettura museale è il lavoro sulla illuminazione, affrontato già nelle fasi di avvio di ogni progetto (10).
Per il Museo d'Orsay la complessità e diversità dei volumi offerti dalla vecchia stazione impongono talora un'opera di taglio, di interna suddivisione (grand nef, salons ovales, galerie des hauteurs), suggeriscono altre volte un processo di unione (pavillon Amont, galerie Bellechasse), consentono poi vere e proprie inclusioni (le torri nella grande nef), ma sempre nel segno della riconoscibilità, determinatezza e funzionalità degli spazi alle esigenze espositive e percettive" (11).
A più rarefatti elementi di condizionamento fa riferimento invece la definizione delle unità spaziali del Musée national d'art moderne a Beaubourg, dove rileggiamo come in vitro il processo di generazione e accostamento degli elementi costitutivi fondamentali dell'architettura museale di Gae Aulentil (12).
Comune tensione che informa e guida la costituzione di tali situazioni spaziali è la ricerca della traduzione in corpo architettonico degli elementi essenziali, delle "materie prime" selezionate per la costruzione: la luce, lo spazio, la superficie. Voluminose perimetrazioni di sale e gallerie segnalano in codice costruttivo l'ambito proprio dello spazio museale, contengono gli impianti necessari al suo "funzionamento", sostengono le "pagine" del suo racconto.
Altre determinanti: le opere e il contesto
Musée d'Orsay, veduta di una terrazza laterale
Nella consapevolezza che non si dà esperienza dell'opera indipendente da quella dello spazio che la contiene e la presenta, la riappropriazione dell'interiore museale nella piena definizione architettonica conduce per via diretta ad affrontare il problema della sua connotazione espressiva. Un problema centrale, complesso, niente affatto "'sovrastrutturale". Anche in questo caso alcuni riferimenti esterni potranno correre in aiuto alla precisazione della portata e del senso della posizione sostenuta da Gae Aulenti.
Il dibattito particolarmente teso che tale questione alimenta, le soluzioni che si confrontano dalla creazione del primi musei d'arte pubblici' (13) sono dimostrativi di concezioni fortemente distanti. Si tratta del rapporto che lo spazio espositivo in quanto formazione costruttiva-figurativa instaura con le opere e, nei casi in cui il museo sia ricavato in un edificio preesistente, con l'architettura che lo contiene. Due concezioni si fronteggiano su posizioni diametralmente opposte: dalla pretesa collocazione dell'opera nel ricostruito scenario del proprio "tempo originario" si passa alle richieste e ai tentativi di sospensione dell'opera "fuori di ogni luogo e di ogni tempo", ovvero alla totalizzante attualità del "tempo eternamente presente". Le intenzioni pedagogiche sottese a queste posizioni opposte sono evidenti: in entrambi i casi una determinata connotazione dell'intorno immediato diviene il mezzo per esercitare un'influenza diretta sulla struttura psicologica della percezione dell'opera. Sono le prevalenti, alterne, talora anche compresenti posizioni espressive delle estreme oscillazioni cui dà luogo l'incontro di architettura, storiografia e critica d'arte intorno al tema del museo nell'età moderna, dal classicismo allo storicismo a certo modernismo, testimonianza di un intenso, difficile, contraddittorio rapporto con la Storia.
Esemplari al riguardo sono quell'atteggiamento dominante nell'ordinamento delle singole sale dei musei che intorno al 1830 aveva spinto lo stesso Karl Friedrich Schinkel a progettare per l'Altes Museum di Berlino le cornici nello stile del periodo in cui il quadro era stato dipinto (14), e quello dimostrativo di un diffuso clima culturale fra gli anni cinquanta e sessanta del Novecento che definisce su pannelli mobili l'asettico ambientamento senza tempo né spazio di quadri spogliati sistematicamente delle loro cornici.
Ma negli stessi anni del secondo dopoguerra ha modo di estrinsecarsi un approccio al tema dell'architettura museale che muove per altri sentieri. In esso lo spazio dell'architettura è strettamente (linguisticamente, compositivamente) integrato a quello dell'allestimento. Centrale è ancora il problema del tempo storico, ma non viene affrontato né in termini rievocativi, né in termini sospensivi; piuttosto sono la sua dimensione transitoria e il suo "spessore" ad essere tematizzati, così da contribuire a far vivere al pubblico la storia "come attualità e come problema" (15).
Recuperando la nozione di ambiente (16), in opposizione a quella di astratto contenitore, la "tradizione museografica italiana" di Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, BPR - a cui evidentemente faccio riferimento, limitandomi a coglierne alcuni tratti distintivi generali - riassegna ad esso una funzione mediatrice fra visitatore e opera. Una funzione che l'architetto si assume in carico di rendere operante impegnando e attualizzando nel rapporto con le preesistenze anche l'essenza della tradizione architettonica, ma evitando di riecheggiarne le "apparenze formali" (17).
La mediazione non si dà né per ricreazione, né per annullamento del contesto: l'opera è restituita nella sua attuale condizione di frammento testimoniale; la sua forza rievocatrice è tanto maggiore quanto più l'ambiente che la ospita denuncia, misura la distanza temporale (funzionale, culturale ecc.) che la separa dalla collocazione originaria (dall'atto, dalle motivazioni e dal contesto della sua creazione); le sue potenzialità espressive, comunicative sono tanto più valorizzate quanto più l'intorno che la contiene e la presenta sa sollecitarle, liberarle e rapportarle a un tempo con la sensibilità estetica propria del momento in cui il museo è fondato.
Il piano su cui si svolge questa mediazione, sorta di dialogo a distanza, è dunque prevalentemente quello della struttura fisiologica della percezione, dell'astrazione più che della figurazione, esprimendosi in quella che è stata definita la "poetica del contrasto" , giocata sui "pesi", le "tessiture", le qualità percettive dei materiali e gli stati di tensione e di quiete di forme, superfici, volumi. Ad altri mezzi, specifici di altre discipline, è affidato il compito di fornire elementi di conoscenza complementari, "guidando" il visitatore lungo percorsi integrativi (18).
La maggior parte di queste esperienze poi si svolge all'interno di strutturazioni e configurazioni spaziali già date in precedenza, così che il progetto è insieme di creazione di luoghi museali e di inclusione, nel patrimonio di opere, dell'edificio stesso che le contiene, poiché analogo, concettualmente, è il rapporto instaurato con l'architettura preesistente.
Musée d'Orsay, veduta della galleria Bellchasse.
È sorprendente la continuità tematica dell'esperienza museografica di Gae Aulenti con l'opera svolta nei primi due decenni del dopoguerra dagli architetti italiani cui si è fatto menzione. Ma in parte può dirsi anche continuità di approccio, se non proprio di metodo: nelle radici dell'etica che informa il rapporto con le preesistenze, nel serrato, fondante confronto con la museologia, nell'appassionato esercizio del mestiere. Di questa tradizione, afferma Pierluigi Nicolin, il metodo di Aulenti "si pretende erede"' (19). È lei stessa a dichiararlo esplicitamente, parlando dello spirito che ha informato certe scelte nella progettazione del Musée d'Orsay, sia nei confronti della architettura di Laloux che delle opere d'arte. Si pensi ad esempio alla pietra di Buxy che riveste le pareti "esterne" e "'interne" del museo entro la grande nef e nei salons ovales: il suo "'peso" ha la funzione di controbilanciare quello degli spazi e dei decori di Laloux, mentre al contempo la sua superficie offre anche qualità di rifrazione della luce che "equivalgono" la ricchezza luminosa delle opere. Alle perplessità dei conservatori sull'uso della pietra come supporto espositivo Aulenti potrà rispondere col precedente albiniano di palazzo Bianco. Si consideri poi il carattere di leggerezza e ariosità della galerie des hauteurs, che colloca gli impressionisti a contatto col paesaggio parigino e col suo mutevole cielo, rifiutando fermamente in pari tempo qualsiasi cedimento anche velato a soluzioni "emotive" cui opere "così consumate, così conosciute, così dentro la nostra immaginazione" avrebbero facilmente indotto.
Qui come altrove il prevalere di un atteggiamento dị distacco emotivo, l'astensione da giudizi direttamente implicanti motivazioni psicologiche e sociologiche nei confronti delle opere d'arte non è dichiarazione di estraneità ad esse, ma un limite consapevolmente fissato ad una azione che sa di doversi mantenere quanto più possibile entro il campo della "realtà primaria della percezione", se vuole consentire al visitatore di avvicinarsi, o riavvicinarsi all'opera libero da "filtri" più o meno sottilmente appaesanti.
Musée d'Orsay, veduta di una terrazza laterale con la scultura di J.B. Carpeaux: la Francia imperiale che protegge l'agricoltura e le scienze.
Il rigore con cui si fissa questo limite e si giocano al di qua le carte della connotazione espressiva dell'interiore museale segna però il momento di una sensibile distinzione concettuale rispetto all'etica che informa il rapporto con le preesistenze nella tradizione museografica sopra evocata. Segna quello che potremmo definire il passaggio da una poetica del contrasto" ad una "poetica dell'opposizione". È una distinzione che si esprime specialmente nel modo con cui il progetto restituisce e relaziona le parti discorsive "fisse" con le quali va ricorrentemente confrontandosi: la museografia e il luogo di "fondazione".
Nelle opere della "tradizione italiana", l'analisi museografica si coniuga strettamente con quella restaurativa, per dar luogo, nei casi più emblematici (penso al museo scarpiano di Castelvecchio), a commistioni, sovrapposizioni, coincidenze, in definitiva a fusioni fra i due livelli del discorso per mezzo dei materiali, delle tecniche, degli strumenti formali che sostanziano restauro e allestimento. In un poliedrico gioco di rimandi, di congiunzioni attuate in virtù di misurate separazioni, vi si esprime un'attitudine in fondo riconciliante, un modo indolore e talvolta giocoso di ricucire lacerazioni fra passato e presente, fra
testo e contesto: "consumato il rapporto tra il monumento preesistente e la nuova architettura, ottenuta la permeabilità dell'antica struttura al circuito museografico", si affronta poi con altrettanta naturalezza "il confronto diretto del proprio strumento formale con le singole opere", per ottenere infine un inscindibile rapporto fra "percorso, fluidità e trasparenza dello spazio architettonico e opere esposte"(20). È in altri termini quella stessa attitudine a ricostruire "pazientemente" frammenti di testo che Manfredo Tafuri osserva
"trasparire in filigrana" nell'allestimento albiniano di palazzo Bianco, che al suo apparire alle soglie degli anni cinquanta "costituisce immediatamente un riferimento d'obbligo per una cultura tesa a salvaguardare, in ogni occasione, rassicuranti equilibri" (21).
Diverso è l'approccio di Gae Aulenti, dove già in una precedente lettura del progetto per l''aménagement intérieur" dell'Orsay, si è rilevata un'attenzione prevalente ai "materiali del museo" ed il conseguente spostamento "in secondo piano" delle "tematiche legate alla conversione vera e propria dell'edificio (22). Ma le realizzazioni nel frattempo avvenute
confermano soltanto in parte queste considerazioni, che richiedono pertanto un'ulteriore precisazione.
Palazzo Grassi, vedute della corte centrale.
(Foto gG. Basilico)
Al Musée d'Orsay come a Palazzo Grassi analisi e soluzione del problema museografico e analisi e soluzione del problema della "conversione" paiono delinearsi come discorsi distinti, ognuno teso a ricercare le motivazioni primarie del proprio costituirsi all'interno di una sfera autonoma. Ed entro certi limiti ciò avviene effettivamente. A Palazzo Grassi il restauro procede per ripristino, consolidamento, "medicazione" delle "ferite" dovute non solo all'invecchiamento naturale dell edificio, ma anche agli interventi di adattamento a nuove funzioni attuati nel corso degli anni cinquanta. È un restauro rigoroso, dalle strutture murarie alle finiture e ai decori, su cui o ai cui margini si appongono soltanto eccezionalmente e in maniera circoscritta "annotazioni"' e "commenti". Poi si introduce l'architettura museale, che porta in sé, nel proprio "corpo" gli elementi che la strutturano e conformano: gli impianti di climatizzazione, di illuminazione, le superfici espositive.
Tutto ciò non intacca la consistenza dell'edificio: al quale si ancora, congiunge e sovrappone con modi che denunciano la lezione appresa dai maestri del dopoguerra, ma dal quale ad un tempo si distacca, in certo senso si oppone come parte discorsiva autonoma e fortemente autosufficiente. Al Musée d'Orsay, in presenza di una maggiore complessità di situazioni, il distacco, l'opposizione fra le parti discorsive è altrettanto evidente e acquista talora toni di forte accentuazione: "affinché siano difese le due identità." Precisa Aulenti: "Laloux è restaurato, perché sia come un'opera esposta."
L'instaurarsi di un rapporto oppositivo non dà luogo perciò a con-fusioni. Ma, "fatalmente", il gioco delle opposizioni sconfina nel gioco delle esclusioni: lungi dal proporre "rassicuranti equilibri" l'opera di "conversione" sancisce il passaggio dell'edificio, della sua natura funzionale e della sua espressione culturale a frammento. Ad esso sub-entra, con l'interezza, l'autonomia e la forza di una immagine che corrisponde a quelle di una funzione in atto, l'architettura museale. E allora, che l'edificio entro cui realizzare questa architettura sia un monumento antico o contemporaneo poco importa sul piano concettuale: non tanto con il restauro, ma con l'inclusione, nella sua rispondenza a una necessità funzionale ed espressiva in rapporto alle opere e all'atto della loro percezione, si dichiara e sancisce il passaggio ad un'altra condizione, dove al tempo stesso si denuncia e "preserva", ma in quanto esclusa, tutta la diversità e identità possibile di un'identità precedente. 'E un'operazione che, sul piano terminologico, esige una denominazione pertinente: al termine "conversione" sarà opportuno sostituire d'ora in avanti il termine "rifondazione."
Musée national d'art moderne al Centre Georges Pompidou. Nuova sistemazione: spaccato assonometrico e sezione longitudinale.
Che dunque un tale atto rifondativo si compia anche al quarto piano del Centre Georges Pompidou, monumento dell'età contemporanea e insieme "contenitore" per attività museali, conferma la "regola" e in più acquista il valore di un emblematico confronto a diretto contatto fra due concezioni antitetiche dell'interiore museale.
Tuttavia, questo agire oppositivo ed esclusivo perderebbe di interes se e "legittimità"' se non fosse, com'è, saldamente ancorato al suo "terreno": se non trovasse in esso le regole e non riferisse ad esso le espressioni del proprio fondarsi e manifestarsi. Regole ed espressioni ancora una volta strutturali: che prescindono cioè, se non eccezionalmente, dal "racconto storico dell'edificio" , non lo commentano, né lo rievocano nostalgicamente col ricorso a metafore e ad allusioni, ma lo proseguono facendo leva su ciò che in esso ha valore di permanenza. Verifichiamolo sui contesti concreti.
Palazzo Grassi e Beaubourg rappresentano "terreni di fondazione" completamente diversi, in certo senso diametralmente opposti: nel primo caso abbiamo vincoli strutturali fortissimi, sia tipologici che espressivi; nel secondo caso abbiamo un'apparente libertà da ogni sorta di vincolo. Ma, ancora: all'atto dell'intervento Palazzo Grassi è già un luogo di eventi stratificati, il Centre Georges Pompidou si presenta invece sostanzialmente intatto nella sua "veste" originaria. Eppure in entrambi, per vie diverse e con diversi strumenti,si esplica con coerenza uno stesso ragionamento. Se dell'edificio veneziano non si tratterà semplicemente di confermare la tipologia e il "carattere," ma di "riportarli alla luce" dal groviglio dei "racconti" sovrapposti (gli ultimi dei quali, il restauro degli anni cinquanta e le trasformazioni e gli allestimenti successivi, lo avevano ridotto da "impianto arioso e ordinato" a "luogo confuso e anche oscuro" (23); del "contenitore"' parigino occorrerà districare l'aereo groviglio di tubazioni e nervature per denunciare un'essenza costitutiva offuscata dalla eccessiva trasparenza. L'impianto edilizio settecentesco e il decoro ottocentesco diventano a palazzo Grassi i "vincoli strutturali" che il restauro si incarica di ripristinare e dei quali il nuovo intervento sostiene rigorosamente il racconto. L'ordine delle campate trasversali dell'edificio di Piano e Rogers è assunto a sua volta quale struttura e modulo di articolazione ritmica delle unità spaziali del Musée national d'art moderne. Nell'uno come nell'altro caso il "nuovo" frappone un consistente spessore a "luogo di fondazione" e opere esposte; uno spessore che si incarica concettualmente e anche funzionalmente di distinguere e mediare, sul piano oppositivo, fratture temporali, discorsive e concettuali.
Musée d'Orsay, Piante del piano terra e delle quote +5,20 e + 19,50
Col progetto per il Musée d'Orsay questo approccio è già delineato con rigore. Tuttavia dimensione e particolarità del contesto ne impongono e rivelano ad un tempo modalità differenti. Tutti i vincoli strutturali selezionati sono assunti e restituiti dall'intervento rifondativo. Ma se rispetto agli altri due musei si riceve talora l'impressione che alle
"promesse" dell'assunto progettuale non corrisponda pienamente l'enunciato realizzativo, non va dimenticato che in questo caso ai "corpi" costituiti dal "luogo di fondazione" e dal programma museografico si aggiunge quello vincolante della proposta ACT, vincitrice al concorso per la trasformazione "architettonica" della vecchia stazione ferroviaria in museo. Nella grande navata, che per Aulenti resta lo spazio "più imbarazzante", il rifiuto dell'agire "per rappresentazioni", per metafore urbane, la messa in atto di "artifici cromatici", la trasformazione dell'idea di una strada centrale in pendenza in una successione di terrazze piane e le delimitazioni materiche che le fanno valere come "stanze all'aperto" per le sculture, l'apertura del "transetto" mediano: tutte misure operanti in direzione trasversale, oltre che sdrammattizzante; se riescono a ritradurre funzionalmente quell'intreccio ortogonale di percorsi che la lettura strutturale della tipologia originaria restituiva, non ne impediscono l'indebolimento sul piano visivo. Un indebolimento che nelle intenzioni degli architetti francesi assumeva la forza di un annullamento. Il loro progetto proponeva infatti un "redécoupage" dello spazio "très largement ouvert de toutes parts" della vecchia stazione, orientando l'intero edificio secondo un solo asse, suggerendo "un cheminement longitudinal comme dans une basilique" e riquadrando "la vue perspective du hall de la gare"' con il "cours et les terrasses qui le bordent"(24). A questo impianto centralizzante invano Aulenti tenterà di contrapporne uno integralmente alternativo, a causa dell'opposizione incontrata nei responsabili della "fabbrica" del d'Orsay.
Fatte queste precisazioni, la realizzazione conferma sostanzialmente le argomentazioni a suo tempo fornite a sostegno e spiegazione del progetto d'aménagement definitivo(25) e in aggiunta esalta gli aspetti legati alla varietà, distinzione e integrazione delle tipologie spaziali in relazione agli " oggetti d'arte" e al programma museale, "nodo problematico" centrale affidato alla riflessione di Gae Aulenti su cui ritorneremo in seguito.
In generale va riconosciuta e sottolineata la coerente ricerca di un rapporto fra architettura museale e architettura della stazione giocato e sostenuto da una stretta corrispondenza oppositiva fra le rispettive geometrie strutturali e figurative. Anche qui, inoltre, il nuovo si incarica del compito aggiuntivo di distinguere e mediare, oltre che funzionalmente, figurativamente contesto preesistente e opere d'arte. Ma in questo caso alle fratture temporali e discorsive che separano i due "racconti"' si alternano anche momenti di congiunzione e giustapposizione. Se la stazione appare estranea per impianto e destinazione alla funzione museale, nondimeno questa stazione e questo museo comunicano tra loro su due piani: "parlando" dello stesso tempo ed esprimen-
do culture, o "sensibilità" figurative affini. Significative al riguardo paiono le soluzioni del problema architettonico e museografico adottate nel pavillon Amont e nei salons ovales.
Musée d'Orsay, La base della torre Senna dal Pavillon Amont.
Più volte è stata sottolineata l'''anfibia" identità dell'architettura di Laloux, in cui si manifestano appieno i tratti di una cultura progettuale che si affida oramai da tempo alla funzione strutturale del ferro ma che ad esso non riconosce ancora "dignità" espressiva. Con la messa a nudo del pavillon Amont, Gae Aulenti opera sul corpo dell'edificio una dimostrazione di storia dell'architettura, indica il principio costruttivo sotteso all'intero organismo, parlando apertamente delle inquietudini che Laloux si era sforzato di dissimulare. In uno spirito che rievoca la lettura benjaminiana di "Paris, die Hauptstadt des XIX. Jahrhunderts", lo svelamento della costruzione sembra puntare l'indice sull'"inconscio" del suo stesso progettista. In questo luogo "ideale" per la fondazione della sezione del museo dedicata all'architettura, l'intervento assume allora i toni dimessi che servono a "lasciar parlare" brani di architettura riscoperta; le distinzioni fra vecchio e nuovo si fanno più esili: l'opposizione, più sottilmente, è operata utilizzando gli "argomenti rimossi" dello stesso Laloux. Nei salons ovales, dove l'integrità strutturale ed epidermica dell'edificio impone un'opera di restauro e non consente la manipolazione di materiali "ritrovati", si osserva il ripristinarsi di un dialogo oppositivo "a distanza"'. Ma il forte peso che ha nella caratterizzazione spaziale e figurativa di queste sale l'architettura di Laloux nei suoi aspetti più rappresentativi in senso accademico consiglierà - poiché nel frattempo sono resi disponibili all'utilizzazione espositiva altri spazi nel corpo dell'Hotel - una rettificazione significativa del percorso museografico: i postimpressionisti, pensati sin dall'inizio nei saloni ovali, verranno collocati nella più sobria galerie Bellechasse, mentre a diretto contatto con i frammenti testimoniali del contesto potrà instaurare più appropriate corrispondenze la pittura del Salons, caratteristica del gusto ufficiale della Terza repubblica.
Architettura e museografia
La definizione dei termini concettuali dell'attenzione riservata alla tematica della "conversione" dell'edificio preesistente e l'osservazione di alcune sue particolari modalità di attuazione costituiscono un presupposto fondamentale per la considerazione più specifica dei criteri che informano e dei modi particolari con cui si concretizza l'attenzione di Gae Aulenti per la tematica museografica. Alla considerazione delle "dimensioni umane" della percezione e del movimento, alla valutazione dei "pesi figurativi" delle opere d'arte si somma infatti il "rilevamento" delle "misure strutturali" del luogo di fondazione a costituire quell'insieme di vincoli con i quali la lettura e la traduzione spaziale-figurativa del programma museale costantemente si confronta. Vincoli che il metodo di Aulenti ricerca e assume non come limitazioni negative, ma come motivazioni reali e stimoli attivi alla definizione del progetto.
La considerazione dei livelli di lettura più o meno complessi delle opere stabiliti dai diversi programmi museografici si accompagna e si intreccia pertanto a quella delle condizioni contestuali, secondo rapporti di interferenza percettiva che garantiscono al visitatore la possibilità della concentrazione e dell'orientamento. L'atto della visita rappresenta infatti per Gae Aulenti "un vero lavoro", e il rapporto con l'opera d'arte "è sempre inquietante e produttore di riflessioni". Per questo occorre creare le condizioni affinché ostacoli e angoscie che si incontrano e generano nel "deambulare" a lungo entro spazi chiusi vengano ridotti o annullati, e a questo corre in aiuto la possibilità dell'orientamento, offerta da qualunque spazio espositivo per rapporto con altri spazi significativi dell'edificio o con l'esterno. E in pari tempo occorre definire le condizioni che da un lato consentano l'instaurarsi di un rapporto percettivo ravvicinato e raccolto con l'opera d'arte, ma che dall'altro lato rispondano anche alla necessità posta dal programma museografico o al desiderio insorto nel visitatore di instaurare relazioni consequenziali fra opere, loro insiemi e tecniche differenti.
Questo duplice carattere di chiusura ed apertura, di autonomia e di eteronomia spaziale e "'narrativa", dà luogo ad impianti dotati di un percorso la cui forza consente e genera altri percorsi, la cui articolazione invita alla sosta e al movimento, all'osservazione separata e al confronto, alla contemplazione e alla riflessione. È evidente che la
"concentrazione" a cui si fa riferimento, escluso un accostamento emozionale del visitatore all'opera, non ne propone uno meramente "fisiologico"; come l'"orientamento" che intendiamo va ben al di là della semplice percezione di relazioni topologiche fra sé e contesto. Sono possibilità e modalità della percezione tanto più ampie e complesse quanto più le formazioni discorsive in causa, posizionate secondo rapporti di corrispondenza oppositiva, comunicano direttamene i loro contenuti e la loro forma. La pedagogia sottesa all'architettura museale di Gae Aulenti si fonda pertanto sul principio della stimolazione, non della guida alla percezione. Essa produce inquietudine intellettuale,
non appagamento.
Nel verificare queste affermazioni di carattere generale sui particolari contesti è opportuno iniziare da Palazzo Grassi, dove restauro e riadattamento alla funzione museale si misurano con un "programma aperto", in continua ridefinizione. Sulla "scena fissa" di uno stabile percorso dell'architettura si alternano periodicamente differenti itinerari artistici. La destinazione dell'edificio ad attività museali di carattere temporaneo sollecita dunque l'architettura ad offrire speciali condizioni espositive: a un programma come somma di una serie amplissima di possibili "eventi" museali deve corrispondere un'architettura che ne sappia interpretare e restituire la forma espositiva generale.
Come la rigidità di "formato" di sale e corridoi, grazie all'impiego di tecniche e soluzioni appropriate, non costituisce un ostacolo al problema dell'avvicendamento e della varietà delle opere, così la successione degli spazi nel rispetto dell'impianto tipologico del palazzo diviene una sorta di "palinsesto" su cui possono trovare adeguata definizione e sviluppo differenti percorsi museografici. Ad ogni "evento" che si succede si rinnova così l'intreccio delle "storie" e dei "discorsi", nella reciproca, chiara distinzione dei "soggetti".
A chi lo visiti nelle pause fra una iniziativa e l'altra, il palazzo-museo appare come l'affermazione di un forte e suggestivo "assunto" che attende d'essere "dimostrato".
La dimostrazione avviene uguale e diversa all'allestimento di ogni mostra, quando le opere, senza apparire come "improprio arredo delle sale", completano, compiono l'atto del
porgersi discosto dalle pareti e dai soffitti decorati delle "pagine" di gesso. È allora che il percorso museografico rivela appieno la lettura tipologica e topologica dell'edificio: nel movimento, che è anche costante riferimento visivo, intorno alla corte interna, e nella sua direzione, che all'inizio e alla fine del percorso è orientata alla luce esterna proveniente dal "campo"' e dal canale.
Beaubourg, schema espositivo delle opere.
Musée national d'art moderne al Centre Georges Pompidou . Schema espositivo delle opere, pianta e vista della galleria del quarto piano.
A Beaubourg come al d'Orsay il percorso museografico è stabilito dall'ordinamento di collezioni permanenti. In entrambi i casi la traduzione spaziale e figurativa del "programma" definisce un percorso orientato contemporaneamente alla lettura delle opere e a quella del contesto. La visita si fa esperienza complessa di sollecitazioni e rimandi.
Nel primo caso, le dimensioni più ridotte, l'uniformità del "luogo di fondazione", la maggiore
"omogeneità"' del "materiale museale" offrono le condizioni per cui, date le premesse di metodo e di atteggiamento più sopra descritte, lo svolgersi autonomo e reciprocamente relazionato degli inserti che compongono il racconto architettonico e museografico sia enunciato con rigore quasi teoretico. Strutture espositive, tipologie spaziali, moduli di scomposizione e aggregazione dello spazio in funzione di insiemi storicamente relazionati di opere, linee di lettura suddividono e organizzano l'architettura "trovata" denunciandone parallelamente con ordine struttura, linguaggio, dimensioni interne e collocazione nel contesto urbano circostante (26).
Ciò che questa esperienza rappresenta sotto il profilo della museografia d'arte moderna è definito esplicitamente da Dominique Bozo, direttore del MNAM, la cui critica alla "concezione ideologica" del museo degli anni settanta (sullo stesso "terreno" che emblematicamente ne ha sancito l'affermazione a Parigi), incontra nell'architettura di Gae Aulenti una possibilità di espressione e di verifica di grande efficacia. Così, al "museo senza muri", alla "esplosione" spaziale, alla frantumazione puntiforme della precedente presentazione si oppone la costruzione di "unità di presentazione che valorizzano il carattere della raccolta e la natura delle opere", dove "tipi di spazi corrispondo-
no a tipi di opere", ristabilendo fra essi rapporti dimensionali riferibili alle condizioni storiche di produzione e di percezione (l'atelier, l'appartamento del collezionista), senza peraltro riecheggiare impropriamente "climi" ed "ambienti". Con coerenza e consapevolezza si operano il rifiuto e il superamento di quella concezione totalizzante dell'"attualità" che nelle Kunsthallen degli anni settanta imponeva l'abito spaziale americano dello "happening", dell'"azione" a materiali espressivi anche di altri momenti e atteggiamenti (27).
Ciò che contemporaneamente va concretizzandosi sulla riva opposta della Senna, al d'Orsay costituisce sul piano della museografia un rivolgimento ancora maggiore, destinato a ripercuotersi anche sul piano della critica e della storia dell'arte. In questo caso la compenetrazione di architettura e programma museografico si fa ancora più stringente: il limite rigorosamente fissato da Bozo al ruolo dell'architetto - "tutto ciò che non è percorso museografico gli appartiene" - resta confermato nella collaborazione con Michel Laclotte, ma il suo "tracciato" appare in questo caso meno rettilineo. Da un "programma sulle qualità dei volumi, della luce, della circolazione" (28) , si attendono al
d'Orsay risposte a quesiti assai complessi, sia per i differenti livelli di lettura delle opere che l'architettura deve consentire, sia per le difficoltà di incontro fra un percorso museografico di notevoli respiro e articolazione e il forte impianto spaziale-figurativo dell'ex stazione. È una problematica su cui pare opportuno soffermarsi più estesamente.
Com è noto, il Musée d'Orsay presenta per una sua parte consistente opere provenienti dal Jeu de Paume e dal Palais de Tokio, riunendo autori e correnti tra i più rappresentativi dell'arte del secondo Ottocento. Si tratta di raccolte che derivano da donazioni e da una politica di acquisti orientata a partire dagli anni venti verso la rivalutazione dell'"arte indipendente" cui in precedenza si erano dichiarati ostili i criteri di selezione dell'Ecole des Beaux Arts. Un patrimonio ch tuttavia presenta forti lacune e che non soddisfa la volontà del responsabile del nuovo programma museografico, Michel Laclotte, di offrire al d'Orsay l'immagine della complessità, varietà e anche contraddittorietà del periodo in esame. Un periodo di cui le collezioni citate, e in modo particolare quelle del Jeu de Paume, restituiscono soltanto, e nemmeno esaurientemente, espressioni anticipatrici delle correnti moderniste del Novecento, che insomma esaudiscono la visione parziale di un "Ottocento come premessa del moderno". Di più, che ipotizzano restrittivamente una certa idea di modernità, escludendo pittori "niente affatto di retroguardia, men che meno reazionari, più semplicemente non appartenenti alla avanguardia parigina". Ma, precisa ancora Laclotte, un periodo di cui fanno parte anche le espressioni dell'arte ufficiale, dell'accademia, i cui esponenti sono non soltanto contempora-nei, ma anche talora maestri, amici, conoscenti di artisti antiaccademici. Per integrare queste lacune, dunque, al d'Orsay vengono recuperate in parte opere precedentemente relegate nei depositi o in musei di provincia e la nuova politica degli acquisti si indirizza in più direzioni.
Agli evidenti vantaggi di una visione più completa e "distaccata" delle vicende artistiche del secondo Ottocento sono opposte tuttavia alcune difficoltà. Un programma di questo tipo non si espone soltanto alle critiche di coloro, soprattutto pittori contemporanei, che "leggono nell'associazione entro lo stesso museo di cose che in precedenza non erano associate una messa in discussione di Cézanne e della modernità del secolo XIX, e dunque una messa in discussione della loro stessa modernità"; il rischio è anche, da un lato, quello della confusione e del disorientamento di fronte ad un "materiale" artistico quantitativamente assai rilevante, qualitativamente eterogeneo, tecnicamente e tematicamente molto diversificato; e, dall'altro lato, della discutibilità di una selezione delle opere e degli artisti che potrebbe apparire basata sul principio esclusivo della documentazione storica e non anche su quello della qualità artistica.
La risposta di Laclotte a questi dubbi e obiezioni si articola su più piani. Egli respinge l'idea secondo cui l'interesse e la positività di questo museo sarebbero consistiti nel presentare l'Ottocento "come l'origine, la matrice del secolo XX": "l'idea di situarsi sempre in rapporto al modernismo" gli appare infatti "completamente assurda". Quanto al problema della moltitudine ed eterogeneità delle opere presentate, esso deriva dalla stessa ricchezza e contraddittorietà delle vicende e delle personalità artistiche del periodo considerato, che non si lasciano semplificare se non a patto di procedere a selezioni ideologiche. Per fare l'esempio di "un'antinomia molto forte" egli invita a considerare il settore delle arti decorative a metà Ottocento, "dove si vedrà che contemporaneamente alla produzione completamente moderna di Thonet si ha il mobilio decorato dai motivi merovingi di
Fremiet".
Del resto il programma si fonda su uno studio preliminare di grande impegno, "consistito nel separare enormemente le cose, nel fare molti piccoli scomparti, vale a dire piccoli gruppi di pittori e scultori, e nel compiere in primo luogo un'analisi storica e critica di tutti gli oggetti d'arte: il mobilio, l'architettura, la pittura, la scultura". L'analisi storica e critica ha comportato anche una selezione, operata sulle capacità più che sulla celebrità degli artisti all'epoca. Di tutte le correnti e tendenze, delle personalità maggiori ma anche di diversi "'sconosciuti", accogliendo "cose un po' inusitate", si mostrano opere significative non per il gusto esclusivo di testimoniare "compiutamente" un'epoca, ma per le qualità artistiche che i suoi prodotti rivelano... con qualche eccezione qua e là, come ad esempio per la scultura, dove Laclotte ammette la presenza di "oggetti un po' kitsch".
I criteri di accostamento, le sequenze, le sezioni che riuniscono, relazionano, distinguono le opere così selezionate in un programma espositivo unitario sono tali da evitare facili confusioni. "In linea di principio si hanno in ogni sala unicamente opere che stanno fra loro in un rapporto strettamente storico". La presentazione è fatta per "famiglie stilistiche" e, quando possibile, per singoli artisti (29). "Si è evitato assolutamente di mescolare diverse forme di creazione". Non c'è pertanto ricostruzione di "ambiente" e di „atmosfera " (30)
e neppure didattico accostamento degli oggetti d'arte a frammenti testimoniali della "cultura materiale" o ad altri generi documentari. Alle esposizioni temporanee e ai "dossiers", allestiti in spazi annessi al circuito espositivo, è assegnato il compito di chiarire il contesto delle opere. Al visitatore ideale è lasciata ampia libertà di decidere se percorrere l'itinerario completo del museo o dedicare invece la propria attenzione ad autori o a movimenti particolari, se integrare la vista delle opere con la lettura dei "dossiers" o "limitarsi" all'esclusivo godimento estetico.
Alle esigenze ed ai quesiti di natura logico-concettuale posti dal programma museografico l'architettura corrisponde in termini di organizzazione dello spazio e della percezione visiva. Possiamo tentare di nominare i modi principali di queste corrispondenze, descriverne alcune situazioni concrete, e vedere in seguito nei punti di maggiore problematicità come questo processo di "traduzione" non sia affatto lineare e automatico, come le logiche e le modalità di costruzione delle singole formazioni discorsive pertengano a sfere oltre certi limiti non scindibili in unità perfettamente omogenee, e come, d'altro canto, proprio grazie a questa dichiarata diversità e autonomia di linguaggi l'insieme riceva movimento e vitalità, restituendo al visitatore reale un'immagine in cui le "voci" che sostengono il „racconto" principale parlano in pari tempo della loro identità e del loro destino individuali.
Due sono le principali scale di percezione del museo d'Orsay: la prima è quella ravvicinata e immediata entro un insieme di opere strettamente relazionate; la seconda è quella che si realizza nella memo-ria, al termine della visita, quando le diverse sezioni, situate in spazi ben determinati, si ripresentano alla mente nella loro successione, distinte e insieme legate da un filo conduttore tematico e cronologico, ma anche architettonico e contestuale. Fra queste due scale si situano innumerevoli livelli di lettura intermedi: le separazioni - fra un insieme di opere e l'altro, fra uno spazio e l'altro - convivono con le congiunzioni, spaziali e visive. Congiunzioni dunque non soltanto fra opere, ma anche fra luoghi: architettura museale e architettura della stazione, interno in un interno, e poi l'esterno: il paesaggio urbano. Il percorso è lettura simultanea del tempo e dello spazio: della prospettiva storica nella sua interezza e nelle sue fratture; della molteplicità fenomenica nella frantumazione, giustapposizione, ricomposizione dei "discorsi".
L'individuazione, l'assunzione e l'esplicitazione delle regole strutturali del luogo di fondazione aiutano ad organizzare in termini spaziali e a suggerire in termini simbolici l'evolversi e il confluire distinto e intrecciato delle diverse "vicende" a comporre questa grande "narrazione". Specificità e appartenenza, sfasamento e simultaneità, discontinuità e continuità del tempo storico e delle creazioni artistiche e spaziali che ne costituiscono frammentata, eppure in sé compiuta testimonianza sono fondate sulla assunzione e rappresentate nella enunciazione dei seguenti sistemi: incrocio ortogonale dei percorsi ai livelli dei preesistenti binari e del quai; reale e apparente simmetricità dell’intero organismo edilizio lungo l'asse della grande navata; diversità e connessione dei luoghi nel pluralismo tipologico e nell'unità compositiva del complesso stazione-albergo.
Il primo di questi tre sistemi si presta ad accogliere e a restituire entro una maglia di percorsi intersecantesi ortogonalmente la parte iniziale della visita al rez-de-chaussée, dove si rende conto dei molteplici indirizzi tematici ed espressivi delle creazioni della pittura, della scultura, delle arti applicate all'industria che dalla metà dell'Ottocento giungono al 1880, con l'eccezione in pittura della corrente impressionista, di cui si mostrano i primi esordi sino al 1870, quando ancora diretti appaiono i legami con la corrente realista.
In campo pittorico soprattutto risultano esemplarmente restituita la singolarità degli artisti e delle correnti e insieme le loro affinità reciproche, i punti di diretto contatto e di più immediato riferimento. La dialettica del discorso museografico acquista forza persuasiva nella traduzione e nell'organizzazione spaziale affidata all’architettura.
Una linea eclettica, che dalle premesse dell'opposizione classico-romantico di Ingres e Delacroix giunge ad illustrare, passando attraverso le scene di storia e i ritratti di apparato dei pittori accademici educati all'Ecole des Beaux Arts, personalità artistiche che si muovono nel campo della "realtà rivelata del sogno“ quali Puvis de Chavannes e Gustav Moreau, sino a comprendere le prime opere di Degas; corre parallela ad una linea realista, introdotta dalla carica espressività di Honoré Daumier, che conduce a focalizzare, attraverso i quadri della collezione Chauchard (Millet e i paesaggisti del gruppo di Barbizon), la "realtà non idealizzata" di Gustave Courbet, per mostrare le opere di Edouard Manet (fra cui le celeberrime "immoralità" dei Salons del 1863 e 1865) e dei futuri impressionisti che assieme a lui figurano ritratti nella grande tela di Henri Fantin-Latour, Un atelier aux Batignolles, datata 1870.
Due linee soltanto in parte, stilisticamente e concettualmente, separate; poiché storicamente compresenti e anche "biograficamente" interrelate. Conseguentemente, alle sequenze longitudinali delle sale e delle annesse gallerie, allineate a formare due insiemi simmetrici ai lati del „corso“ centrale, fanno riscontro i "richiami" trasversali delle loro aperture, che scandiscono nel rapporto con l'architettura preesistente gli intervalli fra gli assi delle campate della vecchia stazione.
Sinché agisce entro la grande navata, l'architettura museale sviluppa un partito simmetrico, che la lieve diversità di larghezza fra le gallerie Lille e Seine non ha la forza di contraddire. Soltanto nel transetto la percezione della maggior profondità del lato sulla Senna si fa evidente; oltre questo la navata prosegue con simmetria, conclusa dalle due torri, dietro le quali, velata dal diaframma della verrière, sale la scala mobile che conduce alla galerie des hauteurs: sviluppo asimmetrico del programma che l'architettura tuttavia non si cura di assecondare. Prevale invece l'architettura della grande navata, che due scale laterali davanti alle torri inducono a "comprendere nell'insieme", salendo sulle terrazze che ne ripercorrono i bordi longitudinali. E una deviazione rispetto al percorso espositivo; oppure una pausa, un invito a riflettere su uno spazio "molto specifico“, a orientarsi rispetto ad esso, prima di riprendere il cammino, o, meglio, gli "itinerari multipli che, superata la fase iniziale, lo stesso programma apre al visitatore.
Si potrà in seguito continuare a scoprire gli sviluppi della pittura d'avanguardia dopo la frattura storica e stilistica del 1870, salendo alla galerie des hauteurs direttamente mediante la scala mobile o percorrendo le vicende dell'architettura del secondo Ottocento ai diversi piani del pavillon Amont. Prima però si sarà sostato nello spazio sotto le torri, dove la maquette alla scala di uno a cento del quartiere dell'Opéra di Charles Garnier si propone come il fulcro di una riflessione sull'urbanistica, l'architettura, la scultura, la scenografia teatrale del Secondo Impero.
Altri spazi "molto specifici" percorrerà il visitatore, attraverso le collezioni che lo condurranno alle soglie del Novecento, sempre invitato alla osservazione "raccolta" dell'opera, sempre richiamato, sollevato lo sguardo, dall'insieme relazionato di ogni ambiente, sempre invitato a stabilire negli intervalli che scandiscono e ritmano il suo movimento all'interno dello "spazio dell'arte" a istituire relazioni visive e culturali col contesto dell'architettura e talora con quello del paesaggio urbano.
Scoprirà, passato il café des hauteurs, la sala dedicata ai neo-impressionisti, e riconoscerà le opere del doganiere Rousseau, di Paul Gauguin, dei Nabis negli "ateliers" della galerie Bellechasse. Realizzando altre connessioni e appartenenze, avrà nel frattempo osservato dalla terrazza sul fronte della Senna i giardini delle Tuileries, l'edificio del Louvre, più in lontananza il Sacre Coeur. Prima di scendere al piano intermedio avrà aggirato la corte dell'hotel e "'scrutato", attraverso una piccola feritoia nella verrière, la grande navata nella sua interezza. Proseguendo, visitati i saloni ovali e le terrazze della scultura, dall'interno delle torri-vetrine che espongono le creazioni di Guimard, le sedie di Thonet e di alcuni illustri architetti mitteleuropei sarà nuovamente spinto a salire: giunto all'apice ripeterà nella pausa fra una frazione di percorso e l'altra l'esperienza della percezione di insieme del grande spazio della navata, questa volta dalla parte opposta.
A questi molti altri esempi, differenti percorsi e punti di osservazione potrebbero assommarsi ed intrecciarsi. Ciò che interessa, sospendendo ad un punto inevitabilmente incompleto l'analisi, è tuttavia sottolineare come dalle esperienze realizzate e sin qui descritte emerga una comune, complessa tensione concettuale, verificata ed espressa in una serie amplissima di modalità attuative. Assumendo oppositivamente i vincoli "strutturali" dei "materiali" coi quali va fondando il proprio costituirsi, l'architettura museale di Gae Aulenti si pone e frappone all'esperienza del visitatore come momento di autoaffermazione e di mediazione fra opere e contesto. Il ristabilimento di una unità funzionale ed espressiva non si dà come annullamento delle diverse identità delle parti discorsive che la compongono, le quali "recitano" contemporaneamente la loro esclusione e la loro presenza, il loro trapassare ed il loro permanere, la loro debolezza e la loro forza. Da qui deriva la natura specifica dell'equilibrio alla fine sapientemente ristabilito, che anziché inibire, alimenta il continuo affiorare di stimolanti inquietudini.
1) Costituiscono materiale fondamentale della redazione di questo testo gli appunti ricavati di una serie di colloqui con Gae Au lenti fra dicembre 1986 e marzo1987. Si fa riferimento ad essi ogni volta che non compare in nota il rinvio ad altra fonte. È riferita inoltre ad una conversazione con Michel Laclotte la parte qui dedicata all'analisi del programma museografico del Musée d'Orsay.
Altre preziose indicazioni, di cui non è possibile rendere esplicita attribuzione, mi sono state fornite da Monique Bonadei e Mirko Zardini.
2) L'espressione è di P.-A. Croset e S. Milesi, "Gae Aulenti, Piero Castiglioni, Italo Rota. Il nuovo allestimento del Museo Nazionale d'Arte Moderna nel Centre Georges Pompidou“, in Casabella, n. 515, 1985, р. 54.
3) Cfr. al proposito quanto riferisce P. Nicolin, "Parigi: Museo d'Orsay", in Lotus international,
n. 35, 1982, рр. 15 e 16
4) Nel senso inteso da M. Foucault, "Spazi altri. I principi dell'eterotopia", in Lotus international, n. 48/49, 1985/86
5) Cfr. l'introduzione di V. Gregotti a Gae Aulenti, Milano 1979.
6) Cfr. N. Pevsner, "Museums" in History of Building Types, Princeton, 1976, pp. 111-138; trad. it. "I musei"', in Luca Basso Peressut (a cura di), I luoghi del museo, Roma 1985, p. 81
7) Cfr. il punto di vista di D. Bozo nell'intervista di C. Lawless, "Ritorno al museo", in Casabella, n.
515, 1985.
8) Cfr. N. Pevsner, "I musei" cit., pp. 52-53.
9) In questi termini L. Basso Pe-ressut e F. Premoli, "Architettu-ra, tipo e contesto nel progetto del museo", in I luoghi del museo, cit. p. 39, leggono le recenti opere di Stirling, Ungers e Meier.
Non si condivide tuttavia quanto essi affermano a proposito dei musei "dei maestri del movimento moderno“, che denuncerebbero una "maggiore continuità con la tradizione (soprattutto tipologica)“.
10) Sul restauro e il riadattamento di Palazzo Grassi a funzioni museali cfr. M. Romanelli, "Gae Au-lenti, Antonio Foscari Palazzo Grassi", in Domus, n. 674, 1986.
11) Sul progetto per il Musée d'Or-say cfr., oltre al saggio citato di P. Nicolin, la presentazione degli stessi autori G. Aulenti e I. Rota, "Aménagement interieur del Mu-sée d'Orsay", in Casabella, n. 482, 1982, con un'introduzione di P.-A. Croset e, ivi, E. Regazzoni e P.-A. Croset, "Destinazione
museo“. Sull'opera realizzata cfr. C. Bertelli, J.C. Garcias, „L'architettura interna del Museo d'Orsay", in Domus, n. 679, 1987.
12) Sul progetto e la realizzazione del "MNAM"' cfr. P.-A. Croset, "Gae Aulenti, Piero Castiglioni, Italo Rota. Il nuovo allestimento del Museo Nazionale d'Arte Moderna“, cit.
13) Cfr. N. Pevsner, "I musei“ cit., pp. 59-69.
14) Cfr. J. Sievers, Karl Friedrich Schinkel. Lebenswerk: die Moebel, Berlino, 1950, figg. 207-217.
A quest'opera rinvia N. Pevsner, I musei, cit., p. 67.
15) Cfr. A. Piva, La fabbrica di cultura. La questione dei musei in Italia dal 1945 ad oggi, Milano,
1978, р. 58.
16) Cfr. F. Albini, "Funzioni e architettura del museo", in La Biennale di Venezia, n. 31, 1958, ora anche in L. Basso Peressut (a cura di), I luoghi del museo cit., pp. 105-108.
17) È una linea di impegno a cui richiama E.N. Rogers ne "Il passo da fare", Editoriali di architettura, maggio 1961; cfr. al proposito A. Piva, La fabbrica di cultura, cit., p. 66.
18 Cfr. F. Albini, "Funzioni e architettura del museo", cit.
19 P. Nicolin, "Parigi: Museo d'Orsay", cit.
20 Ivi.
21 Cfr. M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Torino 1986, pp. 64-65.
22) P. Nicolin, "Parigi: Museo d'Orsay", cIt.
23) G. Aulenti e A. Foscari, 1985-1986 L'ultimo restauro, Palazzo Grassi, Venezia 1986.
24) Sono argomentazioni di R. Bardon (che insieme a P. Colboc e J.P. Philippon ha elaborato il progetto generale di riuso della stazione) riportate in „Orsay", numero speciale di Connaissance des Arts, 1986, p. XX
25) Cfr. G. Aulenti e I. Rota, Aménagement intérieur del Museo d'Orsay, cit.
26) Cfr. al proposito l'efficace descrizione di P.-A. Croset e S. Milesi, "Gae Aulenti, Piero Castiglio-
ni, Italo Rota. Il nuovo allestimento del Museo Nazionale d'Arte Moderna", cit.
27) Cfr. l'intervista a Bozo di C. Lawless, "Ritorno al museo", cit.
28) Ivi.
29) Sale Daumier, Courbet, Degas, Manet, Puvis, Cezanne, Van Gogh, Gauguin; piazza Car-peaux, terrazza Rodin, "passeggiata" Guimard.
30) Le cui possibili modalità di "montaggio" sono ironicamente esemplificate da F. Cachin, direttore del museo, nel modo seguente: "in una stessa sala un canapé Napoleone III, il modello di una facciata di Haussmann, un quadro storico in voga al Salon con un sottofondo musicale di Meyerbeer", ecc. (F. Caçhin, introduzione a Musée d'Orsay. Guide, Parigi, 1986.